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Daniele Alesini, il medico di Foligno campione a L'Eredità: "Vi racconto le mie ghigliottine"

Daniele Alesini eredità Daniele Alesini a L'Eredità

Daniele Alesini, quando parla di Foligno, ricorda la sua infanzia. Quei nove anni nella città della Quintana lo hanno legato per sempre all'Umbria e alle sue colline. Tant'è che ancora oggi, quando può, torna con la sua famiglia nella casa dove è cresciuto insieme ai suoi genitori e ai suoi fratelli. D'ora in avanti, però, non sarà più solamente il dottor Daniele, oncologo all'ospedale Santo Spirito in Sassia di Roma, ma il dottore de L'Eredità, "come mi hanno chiamato anche durante una piccola vacanza a Caserta". Sì, perché Alesini, nel mese di gennaio, è stato assoluto protagonista del game show in onda tutti i giorni su Rai Uno prima del telegiornale delle 20, portandosi a casa ben 285 mila euro, cifra record per il programma.

- Daniele, ma come è nata questa avventura a L'Eredità?
Devo dire che il merito è di mia moglie. Mi prendeva sempre in giro perché trovavo delle definizioni particolari, l'estate scorsa era stata fatta una domanda su una parola strana e io, dal nulla, le ho dato il significato. A quel punto mi ha iscritto. Sembrava un gioco, io non avevo mai avuto questo pensiero anche perché non sono uno a cui piace stare sotto i riflettori e diciamo che in un programma televisivo ce ne sono diversi. E' stata un'esperienza nuova, dove ho fatto cose diverse rispetto alla mia routine giornaliera. Pensavo di rimanere una sola giornata, invece è stato un uragano che mi ha trascinato con sé per 12 giorni, in totale 23 puntate.
- Cosa si porta dietro?
Tante cose. Ho conosciuto molte persone che lavorano intorno a questo programma, sia per la Rai che per Banijay, e umanamente è stata un'esperienza bellissima. L'ambiente mi ha accolto molto bene, sono stati tutti cordiali e il messaggio che ci veniva dato dagli autori era quello di divertirci, perché alla fine stavamo partecipando a un gioco. Sia io che gli altri concorrenti non abbiamo avuto difficoltà a recepirlo, tutti lavoravano per farci sentire a casa. Sono molto contento di come è andata, è stata un'esperienza indimenticabile di cui avrò per sempre un bellissimo ricordo.
- Durante la sua esperienza ha vinto 285 mila euro: come pensa di utilizzare il montepremi?
Ho tre figli piccoli (Nicolò di 9 anni, Alice di 6 e Olivia di 2, ndr) che stanno crescendo, la casa attuale inizia a starci un po' stretta. Insieme a mia moglie Maristella abbiamo pensato di comprarne una nuova, la vincita ci aiuterà.
- E' consapevole di aver battuto un campione storico come Massimo Cannoletta?
Sì, Massimo non lo conosco ma lui ha una competenza infinita. Io sono stato fortunato, le mie conoscenze sono distanti anni luce dalle sue.
- Quanto è difficile la Ghigliottina?
La difficoltà principale è legata al fatto che non ci si può preparare, di solito vince chi riesce a far accendere la lampadina vedendo le cinque parole. Non saprei nemmeno dire se c'è una strategia giusta per affrontarla, forse il focalizzarsi sul termine più strano con un campo semantico intorno meno ampio. Ma la differenza principale rispetto a quando si è a casa e si gioca in famiglia è che se dalla tv le parole arrivano in maniera passiva, in studio bisogna scegliere di volta in volta senza una logica, e il ragionamento viene interrotto di continuo. E' veramente diverso, non solo a causa della tensione che ci può essere. Ogni volta devi fermarti e ripartire, e quando uno pensa di avere finito iniziano i 60 secondi per indovinare la parola che si lega alle altre, un minuto che in realtà vola: il tempo per ragionare è veramente poco.
- C'è qualche aneddoto che vuole raccontare?
Di risate ne abbiamo fatte tante. La televisione è una struttura enorme che ha i suoi ritmi organizzativi e tecnici, noi concorrenti stavamo spesso seduti in questo periodo, perché durante le registrazioni poi si passavano ore e ore in piedi. In quei momenti leghi con tutti gli altri concorrenti, si raccontano storie ed esperienze ognuna diversa dall'altra. Se devo ricordare un episodio, penso a Marco Amata, un concorrente molto bravo che purtroppo non è riuscito a vincere. Una sera gli è capitata una domanda sul numero delle dita dei gatti, che sono 18. Una risposta che l'aveva turbato, e ogni volta che veniva fatto un quesito difficile scherzavamo sul fatto che niente avrebbe battuto le 18 dita dei gatti.
- La sua esperienza è finita volontariamente, nonostante fosse ancora il campione in carica. Perché?
Sono rimasto il più possibile, tenendo conto delle esigenze del reparto ospedaliero dove lavoro. Ovviamente prima della puntata avevo avvisato la produzione che avrei lasciato, sia i registi che gli autori erano dispiaciuti, mi hanno detto che potevo dire quello che volevo per salutare e quelle frasi mi sono venute fuori dal cuore. Ogni parola detta era sentita, ma la prima cosa che ho voluto dire è stato grazie ai miei colleghi che mi hanno sostituito in quel periodo. Hanno fatto una gentilezza, non era dovuto. Questo ha contribuito a farmi dire basta.
- Facciamo un salto indietro. Lei è nato a Foligno, dove ha vissuto per nove anni: che legami hai con la città?
Noi siamo cinque fratelli, e in quattro siamo nati a Foligno. La mia famiglia si è trasferita negli anni '70 per lavoro, quello che doveva essere un breve periodo è diventato un trentennio. Abbiamo grandi legami con il territorio, io ho fatto fino alla terza elementare qui. E' un legame affettivo, amo questa città anche grazie a mio padre, che l'ha adorata, quindi c'è pure questa componente legata alla memoria e al ricordo. Abbiamo ancora casa, torniamo spesso soprattutto con la bella stagione, e ogni volta è bello, rivivo tante cose della mia infanzia. E' sempre un'occasione di gioia, soprattutto il periodo della raccolta delle olive.
- Ha citato suo padre Andrea, anche lui medico. A Foligno gli hanno intitolato una sala del San Giovanni Battista, a Roma l'ospedale Cto: quanto la rende orgoglioso e quanto ha influito la sua figura nella scelta del lavoro che oggi fa?
Sono più che orgoglioso di quanto ha fatto mio padre. E' morto quasi 30 anni fa, nel 1996, ma ancora oggi alle persone che sentono il suo nome si illuminano gli occhi, sia in Umbria che nel Lazio, dove è stato per due anni direttore della Asl Roma C. Probabilmente io non mi rendo nemmeno conto di cosa sia stato mio padre, questa cosa mi riempie il cuore di orgoglio e gioia. Rispondendo alla seconda parte della domanda, fin da piccolo ho amato il corpo umano e mi veniva regalato come gioco. Da quando ho memoria ricordo che il mio sogno era fare il medico. Per quanto riguarda l'oncologia, invece, non so dire se la morte di papà a causa di un tumore ha influenzato questa scelta, bisognerebbe andare nel multiverso per saperlo.
- Capitolo Quintana, di quale Rione fa parte?
Io sono cresciuto a San Giovanni Profiamma, non ho un Rione di appartenenza. I miei genitori e i miei fratelli hanno abitato a Corso Cavour ed erano del Morlupo.
- Adesso le capita di essere riconosciuto dai suoi pazienti come "Daniele de L'Eredità"?
Succede e fa piacere, ma non solo con loro. Di recente sono stato alla reggia di Caserta e qualcuno mi ha fermato per chiedermi se fossi io il dottore de L'Eredità: ormai è questa la definizione che mi hanno dato, è bello, non me lo sarei aspettato.

Gabriele Burini, classe 1999, in attesa dell'esame da professionista. Cresce dando calci ad un pallone e con il sogno di esordire in Serie A, ma capisce presto che negli stadi sarebbe entrato solament...